La scelta estetica

Molta gente si imbarazza a compiere scelte estetiche. C’è chi si fa arredare la casa forkedroaddall’architetto. Chi si veste come prescrivono le riviste di moda o imitando un personaggio celebre. Chi si rifiuta di confrontarsi con l’arte per paura di non saperne abbastanza e preferisce dunque rendere riconoscibile il proprio desiderio di eleganza attraverso il proprio iPhone o la propria Audi – una bellezza preconfezionata, garantita.
L’arte e l’estetica richiedono invece partecipazione, impegno. La loro funzione primaria non è intrattenere o distrarre e neppure stupire: è far prendere coscienza della necessità della decisione, della responsabilità, anche e soprattutto in momenti di crisi, personale o collettiva, perché è allora che diventa davvero possibile la critica (sia crisi che critica derivano dal verbo greco krino, ‘giudicare’). Arte ed estetica aprono uno spazio di gioco, in cui si possa imparare a scegliere senza pagarne necessariamente le conseguenze.
Il libero mercato e la sua ideologia dei consumi hanno trasformato il gioco in una cosa seria e il bello in un valore. L’edonismo obbligatorio della società dello spettacolo, il culto delle celebrity, la schiavitù della griffe, l’ossessione per l’immagine, non sono estetica. Sono il suo contrario: strumenti di anestetizzazione di massa attraverso i quali il bello cessa di essere un’esperienza soggettiva al quale affidare un valore universale e attraverso il quale costruire vincoli di solidarietà (è la definizione di Kant) e diventa invece un valore universale a cui i consumatori si adeguano per affermare la propria individualità (è la strategia di marketing della Apple).
Purtroppo la sinistra, che fu forte quando cercò di conquistare, e talvolta ci riuscì, un’egemonia culturale, oscilla oggi fra il disinteresse e la complicità. Non occuparsi di estetica o, peggio, puntare all’anestetizzazione del pubblico (come fece Tony Blair e sta facendo Matteo Renzi), potrà forse portare a qualche temporaneo successo elettorale ma tradendo completamente quelli che dovrebbero essere gli obiettivi irrinunciabili di un movimento progressista, e cioè l’eguaglianza e la presa di coscienza.
La resistenza al capitalismo liberista non la si fa inducendo la gente a comprare un diverso tipo di prodotti. La si fa aiutandola a scegliere, a giudicare, a prendersi delle responsabilità. Non la si fa pubblicizzando begli oggetti o belle idee spacciandoli per status symbol materiali o intellettuali, neppure quando fossero simboli di emancipazione; piuttosto spingendola a produrre arte e a interpretare l’arte – e attraverso quegli atti di creazione o fruizione, a riscoprire legami di comunità.
L’arte, sia quella che guardiamo o compriamo che quella che produciamo noi stessi, ha lo scopo di farci capire che sta a noi decidere. Che sta a noi: è questo il punto essenziale, un momento estetico e al tempo stesso rivoluzionario. In modo che dopo si possa passare ad altri settori – la politica, l’economia, la morale – senza sensi di inferiorità, finalmente consapevoli che devono servire a liberarci, non a soggiogarci.